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L'Italia malata di misoneismo

L'Italia è malata di misoneismo, lo scriveva già nell'anno 2005 Philippe Daverio, ma per fortuna la crisi ci costringe a cambiare.







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L'Italia malata di misoneismo

L'Italia è malata di misoneismo, lo scriveva già nell'anno 2005 Philippe Daverio, ma per fortuna la crisi ci costringe a cambiare.


"Un fantasma, purtroppo non uno spettro, s’aggira per l’Italia, e purtroppo non per l‘Europa come ebbe a dire centocinquant’anni fa un noto filosofo tedesco. Il fantasma attuale corrisponde ad una patologia non ancora del tutto individuata e dal nome poco conosciuto “Il Misoneismo“, che non è come si potrebbe intendere una malattia delle ossa, ma un comportamento della psiche che corrisponde all’odio per il nuovo. Trae la sua etimologia dal greco, come misoginia e misantropia, dal verbo miseo (odiare) e dal sostantivo neos (il nuovo). Gli italiani d’oggi non amano più il nuovo, temono il domani e forse per No al nuovo = misoneismoquesto motivo hanno deciso di non fare più figli. La causa di questo disagio non è affatto accertata, magari è politica, magari è solo dovuta ad un impigrimento generalizzato, o forse è generata dalla consapevolezza dei guai futuri che derivano dagli anni troppo spensierati durante i quali si spese con allegria, si dissipò con determinazione e si lasciò crescere irresponsabilmente il bubbone della corruzione. Chissà? Certo è che gli Italiani, secondo il parere di alcuni, stanno andando sotto coperta oppure, secondo il parere degli altri, compiono l’ultimo giro di danza sul precipizio. Questo comportamento che lascia crescere preoccupazioni ormai quasi esistenziali nel campo dell’economia e della vita sociale ha anche ricadute molto significative nel mondo e nel mercato dell’arte. Così come nelle questioni della politica anche in questo campo gli italiani sono diventati misoneisti. Si rifugiano nelle certezze d’un passato ormai incerto perché inafferrabile e si consolano pensando d’avere comunque ereditato la fortuna di possedere il più vasto patrimonio artistico del mondo. Seguono con passione le mostre di Parmigianino o di Canaletto, anzi, per la prima volta scoprono in massa la cultura del passato, la passione per la cultura del passato, ed è questa una passione che non esige approfondimenti particolari, richiede solo una inclinazione all’argomento e la voglia di sentirsi partecipi. La storia rassicura, garantisce l’appartenenza e le radici. Il presente invece preoccupa. Individuare una situazione “chiara e fresca” dell’arte attuale sembra quasi impossibile. L’odio del nuovo proviene dalla paura e la paura dall’incertezza. Vi è una incertezza trasversale e costante su tutto ciò che appare come innovativo o anche genericamente alternativo. Della contemporaneità è tollerata solo quella parte certificata dalla garanzia d’un proprio percorso già stabilito, sicché volentieri si accetta una avanguardia che rimane immutevolmente la medesima da venti o trent’anni e che viene con dottrina insegnata nelle accademie. Nell’area vasta della contemporaneità che dovrebbe prevedere la sperimentazione e quindi il rischio, si anela alla sicurezza. Si guarda un presente che nella realtà effettiva è un ieri. Non potendo però evitare di guardare all’oggi, ed essendo comunque attratti dalle novità della moda e dal fascino luccicante delle carrozzerie, si deve trovare altrove la modernità che si odia in casa. Ecco forse il motivo di fondo che porta l’Italia ad amare con trasporto Anselm Kiefer o Damien Hirst, gli ultimi ritrovati che le sono stati proposti dalla grande distribuzione internazionale. Perché il mercatone internazionale sembra dare certezze. Ed ecco che alla Biennale 2005, nel padiglione Italia, che tale è secondo Croff per l’ultima volta e poi scomparirà da qualche parte all’Arsenale di Venezia, in quel padiglione dove venne esaltato il Futurismo e Carrà del Novecento, dove passarono Margherita Sarfatti e il meglio dell’intelligenza postbellica, compresa la contestazione sessantottina, ebbene in quel padiglione, proprio in quello lì, su cinquanta artisti, di italiani ve ne saranno solo cinque, già garantiti dall’essere stati ammessi nel gotha del circuito trendy. Il tutto sotto la selezione benedicente di due cortesi signore spagnole che hanno conquistato i galloni dell’intelligenza indagatrice in un museo del MidWest americano o organizzando utili mostre ispaniche su Julian Schnabel. Un ottimo contributo di rinvigorimento nazionale per la grande battaglia di confronto con i mercati di domani, e questi purtroppo non solo artistici."
Questo è quello che scriveva Philippe Daverio sul n. 1/2005 della Gazzetta delle Aste. Leggendo l'articolo oggi, e considerato che in questo periodo la malattia del misoneismo è talmente evidente che chiunque si sente di certificarla, pare un pezzo quasi banale che dice cose quasi ovvie. Tuttavia, da questa grave malattia si può uscire e oggi è proprio la crisi che ci viene in soccorso. Non lo diciamo noi della redazione di PITTart, ma lo ha detto, in occasione della crisi del 1929, il premio Nobel Albert Einstein: "non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione, perché è nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Finiamola dunque una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla".
Dunque è la crisi che ci costringe a cambiare, perché "senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze". Se molti stessero bene, avessero un lavoro, del denaro da spendere, i figli in una scuola degna di questo nome e il paracadute di un sistema sanitario efficiente ed efficace, nulla cambierebbe, nonostante la corruzione, i ladri, i finanziamenti illegittimi, le troppe non decisioni, la fame di lavoro e tutti gli altri mali che da anni affliggono il popolo italiano. Finiamola dunque con il misoneismo!, finiamola con la tragedia di non voler lottare per cambiare! Philippe Daverio e Albert Einstein, lo hanno ben spiegato, ma prima di loro, lo ha scritto nella particella atomica, madre natura, se è vero che "nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma". Se i nostri nonni sono stati capaci di sperare e avere dei figli sotto le bombe, noi non attendiamo di avere una crisi simile per cambiare.